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Il dolore di chi resta

Pubblicato il 13 Aprile 2020 10:31

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La saggezza popolare ha sempre insegnato che il tempo guarisce ogni ferita, ma in questo tempo la realtà è ben altra.

Un tempo dove lunghe file di camion militari trasferiscono mestamente bare di poveri genitori morti senza nemmeno la carezza dei propri figli, dove questi mezzi creati per la guerra si trasformano come per un crudele gioco del destino in moderni “Caronte” senza nessuna pietà umana, se non quella che alberga nel nostro animo al cospetto di tanto dolore, oggettivamente credo che non sarà questo tempo a farci da lenitivo.

Pensateci bene, una delle cose che più ci spaventa di questo virus è la possibilità di venire strappati di colpo dai propri affetti, entrare in un ospedale dove le persone che ti curano non hanno volto, quelle persone che tanti ora chiamano eroi, (mentre prima erano solo merce di scambio per interessi economici) sono nascoste dietro occhiali e mascherine e rimangono per tanti l’unico collegamento tra la vita reale, e la consapevolezza della paura di morire, e riteniamoci fortunati perché dietro quelle visiere e sotto quelle mascherine, si trovano uomini e donne piene di umanità, colmi di senso di responsabilità e soprattutto innamorati, al disopra della paura di morire, del loro lavoro e della vita umana.

Immagino tutti quei figli, mariti, mogli, a cui questo mostro biologico ha strappato un pezzo di vita, sospesi come in un limbo ad aspettare una telefonata con la paura recondita di ciò che essa potrebbe comunicare, immagino la paura nei loro occhi, immagino la rabbia che li pervade, immagino il senso di impotenza che li assale, immagino l’immaginabile e mi rendo conto di quanto io ora sia fortunato in quanto non mi è dato di provare questa atroce realtà.

Le cronache degli ultimi giorni ci hanno restituito la notizia che migliaia di persone sono state denunciate perché hanno violato la quarantena in barba a tutte le restrizioni, forse perché incoscienti, forse perché ignoranti, ma più probabilmente perché non è toccato a loro lasciare andare qualcuno senza nemmeno potergli dire addio, non è toccato a loro piangere un padre versando lacrime solo su fotografie consumate dal dolore di un addio non dato.

Se la morte oggi è una realtà, vivere deve diventare domani un impegno a restare umani, a dare un senso al tempo che ci rimane perché non dobbiamo sperare di essere fortunati, ma dobbiamo costruire un senso civico comune, dobbiamo aprirci necessariamente ad una mutazione della vita che conoscevamo prima, questo virus ci sta facendo capire quanto erano importanti i legami umani, il parlarci faccia a faccia, lo stare insieme in presenza e non a distanza… in pratica sta mettendo alla luce tutta la precarietà e la fragilità della condizione umana.

Se c’è una cosa di cui andare fieri del nostro paese in questo periodo apocalittico, è quella di aver dimostrato al mondo intero, che la vita di un ottantenne è preziosa e da salvare tanto quella di un diciottenne.

Sono sicuro che usciremo da questa pandemia, e mi auguro che quando succederà tutti sappiano maturare delle riflessioni critiche, riflessioni che ci aiutino ad avviare una profonda trasformazione dei nostri stili di vita, e del nostro comune senso di appartenenza che in tempi di “normalità” forse avevamo dimenticato, e che in questi giorni oscuri stiamo riscoprendo.

Statene certi, finché gli uomini saranno capaci di vivere e piangere insieme, finché chi può aiuta chi non può, questo minuscolo agente infettivo non avrà l’ultima parola su di noi.

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