Protesta unitaria dei sindacati contro la privatizzazione di Poste Italiane. Nella mattinata di lunedì 25 marzo nella sede Cisl di Perugia si è, infatti, tenuto un vertice nel corso del quale le organizzazioni sindacali (Slp Cisl, Slc Cgil, Uilposte, Failp Cisal, Confsal Com e Fnc-Ugl Com) hanno espresso la loro contrarietà rispetto al Dpcm recentemente licenziato dal Governo Meloni, che dà il via alla fase di privatizzazione di alcune aziende, tra cui appunto Poste Italiane, con l’immissione sul mercato del 29,26% delle quote possedute dal Ministero dell’Economia e finanze.
Azienda che in Umbria conta 258 uffici postali – esclusi i 16 centri che si occupano di recapito e logistica -, di cui 191 nella provincia di Perugia e 67 in quella di Terni, per un totale di circa 1.600 lavoratori.
Diversi i motivi del no dei sindacati, a cominciare dal rischio di “perdere la capillarità della rete che eroga i servizi ai cittadini anche nelle comunità più remote e assicura il servizio universale del recapito in tutte le realtà geografiche”. Tra le criticità sollevate dalle organizzazioni sindacali anche la “possibile razionalizzazione degli uffici postali che – dicono – potrebbe comportare nel breve termine sia una riduzione del personale con ricadute occupazionali su tutta regione, che uno scadimento della qualità dei servizi erogati al cittadino”. E ancora i rischi legati alla “sopravvivenza tutta la filiera del recapito postale”. Per la rete di sindacati, inoltre, “la rete immateriale di Poste Italiane con oltre 30 milioni di rapporti intrattenuti con cittadini e PMI, fa gola a molti”, rappresentando quello che definiscono “un fattore strategico per lo sviluppo dell’intero Paese”. “Solo mantenendo il controllo pubblico – sottolineano a questo proposito – potremo avere garanzia del mantenimento della socialità dei servizi”.
Insomma, per le organizzazioni sindacali si tratta di una “inutile svendita, un’operazione di mera cassa finalizzata ad abbattere il debito pubblico di insignificanti decimali, che va paradossalmente a discapito dello stesso bilancio pubblico”. Questo perché, secondo quando dichiarano, “la vendita delle quote azionarie detenute dal Mef comporta la rinuncia ai corposi dividendi distribuiti fra gli azionisti in questi anni”. A parlare, su questo fronte, sono i numeri: il 2023 si è infatti chiuso, come spiegato dall’amministratore Marco Del Fante, con 12 miliardi di ricavi, 2,6 miliardi di utile operativo e 1,9 miliardi di utile netto. “Possibile – si chiedono quindi i sindacati – che si voglia rinunciare a tutto questo?”.