“Non chiamatemi mecenate” si affretta a dire Carlo Caporicci. Da imprenditore e uomo di mondo qual è, il deus ex machina di San Pietro a Pettine sa bene però che il suo intervento e quello della sua famiglia ha permesso di restituire alla comunità locale un bene di inestimabile valore. È l’omonima chiesa di San Pietro a Pettine di Trevi, che rientra all’interno dell’amena proprietà che da circa 40 anni appartiene alla famiglia Caporicci. Un luogo che rinfranca anima e corpo, dove gli affari lasciano – volutamente – il ruolo di protagoniste alla bellezza e alla pace. Sostantivi che si uniscono al grande amore per la propria storia e le proprie radici. A conferma di ciò, il fatto che la chiesa sia sempre accessibile e visitabile da chiunque (salvo di notte o in situazioni particolari), nonostante insista su una proprietà privata. Ma, dopo l’acquisto e il minuzioso restauro dell’edificio e degli affreschi rimasti al suo interno, mancava qualcosa. E quel qualcosa era sostanzialmente capire le origini e la quasi millenaria storia di un “luogo dell’anima”, per dirla con le parole di Carlo Caporicci. “Quando abbiamo acquistato la proprietà, eravamo consapevoli che la priorità fosse il recupero di questo edificio sacro – ricorda Caporicci -, visto che la condizione strutturale era pessima. Sei-sette anni fa è partito poi il recupero degli affreschi. A chi viene a visitare questo luogo abbiamo però sempre lasciato una narrazione approssimativa. È per questo che ho sentito l’esigenza di creare qualcosa su cui basare un racconto veritiero”.
È così che nasce “I nove secoli di San Pietro a Pettine” (Edizioni Era Nuova), libro che raccoglie la storia della chiesetta attraverso fonti scritte – in larga parte inedite – e altre archeologiche, attraverso gli studi del dottor Stefano Bordoni, che oltre ad aver analizzato la complessa stratigrafia delle murature è anche l’autore della pubblicazione. Storia nella storia, per Stefano Bordoni si tratta di un ritorno alle origini. Trevano di nascita, dopo il dottorato e il successivo insegnamento all’Università di Edimburgo, Bordoni ha deciso di mollare tutto per iniziare una nuova vita nella sua terra natia.
Quasi come su un ottovolante, nel corso dei secoli la chiesa di San Pietro a Pettine ha alternato momenti di splendore ad altri di forte declino e decadenza.
Le prime notizie certe scovate da Stefano Bordoni negli archivi spoletini risalgono al 1127: non si tratta però della nascita della chiesetta, verosimilmente databile qualche decennio prima. L’edificio nasce come luogo di culto privato della famiglia che lì aveva i suoi possedimenti e, proprio in quegli anni, viene ceduta all’Abbazia di Sassovivo. È il periodo in cui sta decadendo il sistema delle chiese private, con le famiglie che puntano ad “associarsi” al potere papale per non perdere del tutto le proprietà.
“Non è un caso che la chiesa sia dedicata a San Pietro, colui che detiene le chiavi dell’Aldilà – commenta Stefano Bordoni -. La struttura raccoglieva la memoria della famiglia che la possedeva e, probabilmente, qui venivano sepolti anche i suoi componenti”. Perché, dunque, “a Pettine”? “Il nome – risponde Bordoni – deriva dal fatto che il luogo era un interessante e importante asse stradale”.

A testimoniare le varie fasi storiche vissute dalla chiesa sono le mura, che rappresentano una sorta di “passaggio di proprietà” a seconda del materiale utilizzato per ampliarla o ricostruirla dopo periodi di decadenza e via dicendo. Intorno alla fine del Duecento, ad esempio, s’innesta anche una casa parrocchiale, mentre tra il Trecento e il Quattrocento la chiesa viene “sventrata” ai lati. Databili intorno alla metà del 1400 due affreschi ancora visibili, così come quello del 1525 realizzato da Paolo Bontulli da Percanestro. Nel Settecento lo stato della chiesa è gravemente compromesso, forse anche a causa del terremoto che squarciò la Valnerina (1703). Nel corso degli ultimi secoli paramenti e oggetti d’arte sacra della chiesa di San Pietro a Pettine sono inoltre stati “saccheggiati” e scomparsi nel nulla. Rimane il crocifisso ligneo che, ai giorni nostri, si trova all’interno del Museo di San Francesco a Trevi.

Agli inizi del Novecento l’edificio viene poi “spogliato e scavato”, considerando che viene portata via anche l’intera pavimentazione. Il resto lo conosciamo già: negli anni Ottanta la famiglia Caporicci, rilevando la proprietà, permette a San Pietro a Pettine di tornare a brillare.
Seppur non presente nel libro, è altrettanto affascinate un altro tipo di ricerca condotta sugli affreschi di San Pietro a Pettine. È quella legata ai graffiti lasciati dai nostri antenati tardomedievali e studiati dal ricercatore Pier Paolo Trevisi (www.graffitimedievali.it – interessantissimo il libro “Graffiti dell’Umbria tra medioevo ed età moderna”). “All’epoca – racconta Trevisi – era costume lasciare la propria firma, un graffito, sugli affreschi come atto devozionale: ne abbiamo testimonianza in tutta Umbria e in tutta Italia”. Ad attirare l’attenzione di Trevisi i graffiti di un personaggio “che ha ‘firmato’ almeno trenta chiese del Centro Italia, da Arezzo all’Abruzzo”. I suoi graffiti, che inizialmente sembravano non avere un senso, nascondono invece una sorta di “messaggio criptato” che dimostra una importante formazione teologica e culturale. Un personaggio ancora misterioso che, nel suo girovagare per l’Italia, non si è fatto mancare nemmeno una o più visite a San Pietro a Pettine. A ben donde.